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Enzo Calabrese: un uomo, mille linguaggi
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Alcuni suoi importanti progetti hanno un’impronta fortemente metropolitana nonché legata ai trasporti. Quali sono le problematiche maggiori che queste opere sollevano?

Quando ti trovi a progettare intere parti di città, la prima riflessione che fai riguarda cosa realmente può differenziare il tuo lavoro dai disastri combinati da altri negli anni precedenti. Allora capisci che i tuoi problemi non possono essere banalmente le risposte alle normative vigenti, o ai numeri e retini a colori degli sterili piani regolatori, o comunque non solo. Quello che pensi è cosa vorrebbero realmente le persone che vivranno in quel posto, come prevedere la vita, le abitudini, le aspettative, e trasformarle in progetto. Così il concetto di strategia si sostituisce a quello di forma, e diviene l’unico approccio possibile, per arrivare poi al design delle cose, degli edifici, degli spazi che saranno gli attori di questa strategia. 

In questo senso, il lavoro sulla grande scala è legato spesso allo studio dei flussi e delle infrastrutture, che ne rappresentano la naturale connessione con il territorio. Una stazione ferroviaria o un aeroporto, o una stazione della metro, come anche la semplice fermata dell’autobus, sono l’anello di congiungimento di tutto questo. Ecco che l’atteggiamento culturale nei confronti del progetto si sposta dal credo ottuso e ripetitivo nei modelli fallimentari del recente passato, che hanno generato le nostre periferie, a un ben più difficile lavoro di interpretazione dell’occasione, che di volta in volta si presenta in realtà sempre diversa e come tale ha bisogno di volta in volta di risposte dedicate e non di stereotipi, sul come rigenerare e reiventare il territorio urbano.

Come immagina, architettonicamente parlando, una città del futuro?

Qualche anno fa, ho avuto l’incarico di progettare un’intera città! Mi era stato commissionato lo studio di un insediamento residenziale per 25.000 abitanti, un mix spaventoso per numeri e dimensioni di case, scuole, moschee, parchi, negozi, uffici, hotel, canali navigabili… il tutto a emissioni zero, o qualcosa di simile, con una qualità della vita altissima incentrata sul non uso dell’automobile così come la intendiamo ancora adesso, sullo sport, sul wellness in genere. Dato non trascurabile, eravamo in territorio di Abu Dhabi al confine con quello di Dubai, negli UAE. Io e il mio studio abbiamo lavorato con un team internazionale e multidisciplinare: paesaggisti, strutturisti, impiantisti, geologi, idrogeologi, ingegneri dei trasporti, economisti e così via, tutti a contribuire alla fattibilità del progetto architettonico che io avevo impostato. Come l’ho immaginato e disegnato? …Boh! Ho azzerato tutte le conoscenze che avevo in materia raccolto ogni input.

Qual è il segreto di un interior design vincente?

Non saprei se esiste un segreto, ma sicuramente esiste un atteggiamento… che poi forse è il segreto! L’atteggiamento che contraddistingue un progettista dall’altro è l’immedesimarsi nelle diverse culture, nel cavalcare le “mode” senza subirle, nel sentire quello che vuole realmente la gente, sia che tu stia allestendo un ristorante, sia che si tratti di un night club. In ogni caso chi dovrà utilizzare per un determinato tempo questi luoghi avrà un desiderio. Si tratta di capire come interpretarlo.

Cosa consiglierebbe ai giovani che si avvicinano al design?

Mi imbarazza un po’ dire “i giovani”, allargherei il concetto di giovane a chiunque si avvicina a una professione dalla quale si aspetta di avere delle soddisfazioni. Ecco, se la mettiamo così il tema è più chiaro. Si tratta di guardare avanti senza pensare che sono in tanti a provarci ma che a essere forti, in tutti i sensi, si è in pochi. Insomma è più facile decidere di fare una cosa che a sognare di farla e contemporaneamente uccidere il sogno con gli incubi. Concentrarsi su un obiettivo porta bene, in qualche modo ti rende speciale e invincibile. La generosità, la passione, la coerenza, esistono e rendono tanto. Questo è vero ancora di più nei momenti di grande crisi, perché se c’è una crisi vuol dire che un sistema sta finendo con tutto quello che nel bene e nel male si porta dietro; ha esaurito le sue possibilità e quindi c’è sempre qualcosa di vecchio di cui liberarsi, che può essere un mestiere o un modo di farlo, e qualcosa di nuovo da fare. Si torna cacciatori.

Quale tra i suoi progetti rappresenta di più la sua filosofia?

Quando nel ‘97 ho disegnato il porta CD The Stone, prodotto e distribuito dalla F.lli Guzzini, è stata la prima volta in cui mi sono sentito davvero di aver espresso un mio pensiero tutto d’un fiato. Questo non vuol dire che ovviamente dopo non ci sia stata la fase di progettazione, anzi c’è stata e anche molto complessa, la Guzzini ha creduto in me, in un ragazzo (allora) sconosciuto che aveva dormito davanti all’azienda nella sua Renault 4 per mettere il prototipo del porta CD in mano a Domenico Guzzini. The Stone ha rappresentato per me la liberazione verso la mia identità. Mi ha permesso di sentirmi sicuro dei miei mezzi. E questa sicurezza si è trasferita poi anche sull’architettura, così quando nel 2001 ho partecipato, con Paolo Desideri capogruppo, al concorso per la nuova Stazione dell’Alta Velocità di Roma Tiburtina, non ho avuto difficoltà a prendermi la responsabilità di disegnare e progettare gli enormi volumi sospesi che dovevano ospitare le attività speciali di servizio ai viaggiatori, e caratterizzare l’intero spazio interno della stazione. Abbiamo vinto il concorso, la stazione è stata realizzata e i volumi fanno esattamente quello per cui sono stati pensati nelle decine di prove sui concept e modelli 3D, fino alla loro ingegnerizzazione. Oggi dopo molti progetti di master plan, di architettura, e di design, e intere collezioni disegnate, come quella per la B_Room di Listone Giordano, ho avuto la fortuna di disegnare insieme a Davide Groppi una lampada, la SAMPEI, che ha vinto il Compasso D’Oro, e prima di questo l’EDIDA International Design Award, e tanti riconoscimenti attraverso le riviste e soprattutto le vendite. È una bella cosa… voglio bene a SAMPEi (e anche a Davide) perché il suo successo rappresenta un premio alla coerenza nel credere in un modo di fare. Lavorare con Davide Groppi vuol dire essere perfetti nel calarsi nell’idea di luce della sua azienda. Questa fatica a volte snervante, in realtà è una gran palestra, fortifica e quindi fa crescere. Adesso non saprei quale progetto mi rappresenta, sicuro ognuno ha delle belle storie da raccontare.

Cosa contraddistingue i suoi prodotti di design?

Si può cambiare la domanda in “cosa non li contraddistingue”?. Una volta mi è capitato di andare a trovare nel suo studio di Milano Alessandro Mendini, che avevo conosciuto qualche mese prima a Pescara in occasione di una mostra d’arte. Decisi di approfittare per fargli vedere alcuni miei lavori su delle cartoline 10x10 che usavo come portfolio. Ricordo che lui trovò il mio lavoro interessante, o almeno così disse, ma che fu colpito dal fatto che non fosse riconoscibile lo stesso autore nei vari progetti. Come se fossero stati fatti da tante persone diverse. Li per li ci rimasi un po’ male e mi sembrò che avesse ragione, e in effetti aveva colpito in pieno. Solo che dopo ho capito che non era un problema, ma una caratteristica. Inseguire per forza un proprio linguaggio riconoscibile è un modo che appartiene forse più al mondo dell’arte. Alla fine il design e l’architettura producono oggetti da collocare nello spazio, con il quale stabiliscono relazioni biunivoche di volta in volta sempre diverse, a seconda delle caratteristiche dello spazio stesso, per renderne più bella e affascinante la percezione e la vita al suo interno attraverso di essi.

Quali sono i tuoi materiali preferiti e perché?

Vale un po’ quanto detto nella precedente risposta. I materiali sono per me tutti fantastici, la differenza tra uno e l’altro la fa l’occasione che si presenta di volta in volta, e forse anche il momento che si vive in un determinato periodo della vita. Si, forse in questo momento il legno e il ferro, intesi nella loro accezione più naturale possibile, mi piacciono molto. Sono materici, si possono scolpire e nel caso del ferro piegare e intrecciare. Sono resistenti e hanno un buon tatto, perché danno la sensazione di essere sani, e il tatto spesso è anche interpretazione delle sensazioni. Così vanno bene per tante cose, non hai bisogno di fare grossi investimenti per utilizzarli, o di consumare tanta energia. Ci puoi fare una sedia, un appendiabiti, una casa, un palazzo, una torre, e alla fine sfasci tutto e li riutilizzi in altri modi.

INFO: www.enzocalabresestudio.it

PHOTO COURTESY: Enzo Calabrese


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